Fra qualche giorno dovrebbe essere chiara l’idea che ha il governo per la (già tanto chiacchierata) riforma della pubblica amministrazione. In attesa che questo avvenga formalmente, non è utile improvvisarsi indovini per cercare di capire quali saranno le proposte che approderanno in parlamento, ma vale certamente la pena fare qualche riflessione sull’attuale organizzazione e le sue origini.
La “privatizzazione” della pubblica amministrazione istituita con le riforme introdotte dalla legge delega n. 421 del 23 ottobre 1992 ed i successivi decreti legislativi viene recepita dalla Regione Sardegna attraverso la legge 31/98. La logica della privatizzazione del pubblico impiego è stata quella di introdurre, nel contesto pubblico, regole giuridiche e di condotta proprie degli operatori privati. Fra i principali effetti quello di togliere la contrattazione per il rinnovo del contratto di lavoro al “politico di turno” affidandola ad un organo tecnico (Coran) e di consentire ai dipendenti pubblici di potersi rivolgere (in caso di controversia con la propria amministrazione) al Giudice ordinario anzichè al TAR.
Le principali novità però hanno riguardato le figure apicali dei funzionari che diventano “dirigenti” ed il vecchio “coordinatore del servizio” diventa “direttore”. Una specie di analogia diretta con il settore privato dove il dirigente riceve il proprio stipendio sulla base dell’incarico che ricopre, ma sopratutto sottoponendosi ad una valutazione da parte del proprio datore di lavoro che periodicamente può verificare gli obiettivi raggiunti ed in caso di “scarso rendimento” può decidere, nel pieno rispetto delle norme contrattuali, di licenziare il proprio dirigente per assumerne un altro.
La riforma della pubblica amministrazione del 92 ha recepito immediatamente gli aspetti contrattuali “privati” come i “premi di posizione” e “rendimento” con il risultato che gli stipendi dei dirigenti sono almeno raddoppiati negli ultimi 15 anni, conservando nel contempo le garanzie di tutti gli altri dipendenti. Nemmeno a parlarne quindi della severa valutazione del “padrone” che nel pubblico è diventata una timida autovalutazione (nemmeno a dirlo sempre positiva) e del tanto temuto licenziamento per “scarso rendimento” naturalmente nemmeno l’ombra.
I risultati di queste regole sono sotto gli occhi di tutti e già il fatto che tutta la politica, le parti sociali e gli “utenti” siano tutti d’accordo nel sostenere che c’è urgente bisogno di una grande riforma è la chiara riprova del grande fallimento di queste norme. Il cammino per cambiare la pubblica amministrazione pare iniziato e fra le altre cose dovrà fare i conti con i tagli e le ristrettezze economiche di questi anni. L’obiettivo dichiarato dal Governo è quello di rendere più snella, efficace ed efficiente la pubblica amministrazione ma parrebbe anche quello di una maggiore giustizia sociale.
Se qualcuno dovesse tenere conto del fatto, che il blocco dei contratti o il taglio dei buoni pasto hanno avuto effetti molto diversi fra chi ha visto quasi triplicare la propria retribuzione e chi invece è semplicemente rimasto a guardare, sarebbe per noi una storica novità.