La recente pubblicazione della graduatoria sulle progressioni ha riportato alla luce gli effetti delle valutazioni del personale nel CFVA scatenando dibattiti e proteste fra i “nuovi esclusi” che rivendicano il sacrosanto diritto di non restare indietro. Tutti i sindacati si stanno impegnando in diverso modo perchè questo divario venga colmato al più presto ed il SAF in particolare da oltre due anni non ha mai smesso di impegnarsi per realizzare il progetto, annunciato già dal primo momento, di concludere questo ciclo di progressioni seppur in tempi diversi, ma senza lasciare indietro nemmeno un collega.
Occorre ricordare però che il sistema delle valutazioni nasce da una precisa volontà politica di premiare ed incentivare i dipendenti pubblici “meritevoli” attraverso l’erogazione di un salario accessorio (rendimento e progressioni economiche) che sostituisce i vecchi scatti di anzianità che venivano riconosciuti indistintamente a tutti i dipendenti. Norme che traggono origine dalla riforma della pubblica amministrazione dei primi anni 90 ed in particolare dai decreti legislativi attuativi della legge 421/1992 che stabiliscono il divieto di erogare qualsiasi tipo di “trattamento economico accessorio” ai dipendenti senza una adeguata verifica. Concetti introdotti con il d.lgs 29/1993 e ribaditi in quelli successivi con inoltre il divieto, contenuto nel d.lgs. 80/1998, di ogni forma di promozione automatica legata ad aumenti economici.
Un susseguirsi di norme che avevano sempre come obiettivo quello di “stanare i fannulloni” e rendere la pubblica amministrazione efficiente e di conseguenza più economica. L’ultima in ordine cronologico è la famosa “riforma brunetta” (d.lgs 150/2009) che la nostra amministrazione ha recepito al momento solo in parte e che prevede delle valutazioni da parte del dirigente, vincolate da precisi numeri e graduatorie. Solo il 25 % del personale potrà essere valutato di “serie A” (nel nostro caso circa 350 forestali) che percepiranno però la metà di tutte le risorse destinate al rendimento, il restante 50 % del personale (circa 700) avrà l’altro 50% delle risorse ed infine l’ultimo 25% non percepirà un solo centesimo. Le progressioni economiche invece saranno riservate quasi esclusivamente al personale che con le valutazioni verrà inserito dal dirigente per almeno tre anni (fra gli ultimi 5) nella prima categoria.
Se si dovesse applicare in questo modo sarebbe una vera e propria follia che va combattuta e respinta nelle forme consentite ma fino a quando sarà una legge dello Stato (volenti o nolenti) la dobbiamo rispettare. Per chi fa sindacato, e cerca di attenuare i disastri di una classe politica (di tutti i colori) che negli ultimi venti anni continua a pensare che solo mettendo i dipendenti in un tritacarne si possa migliorare la pubblica amministrazione, non è un bel momento. Farsi avanti per rappresentare i propri colleghi, vuol dire oltre che impegno, il rischio di essere ritenuti corresponsabili dello stesso sistema che si cerca di combattere. Per chi si espone, la peggiore delle valutazioni che si possa ricevere.
Le risorse messe a disposizione per il nostro rendimento non possono essere erogate senza le valutazioni del dirigente e le progressioni si possono fare solo attraverso una selezione che è l’esatto contrario di “tutti e subito”. Questo dice la legge e con questo devono fare i conti i sindacati, poco importa poi alla politica e tanto meno all’opinione pubblica se oltre ad essere un chiaro fallimento provoca disastri e forti malumori fra il personale. Effetti collaterali certamente meno gravi, sono stati definiti da qualcuno, del fatto che un tempo nelle pubbliche amministrazioni tutti venivano pagati uguali, sia chi lavorava sia chi non produceva assolutamente nulla.
Sedersi ad un tavolo di trattativa con questi presupposti e trovare un accordo con una controparte che crede in quelle norme non è un lavoro facile ed è forte la tentazione di sottrarsi alle responsabilità ed unirsi al coro di chi da sfogo al nostro atavico individualismo scegliendo di distribuire colpe anziché combattere per un risultato. Il sindacato resta però, con tutti i suoi difetti ed i suoi limiti, l’unica arma che ci rimane per dire quello che pensiamo e fare in modo che le nostre idee arrivino nelle “stanze del potere” dove i nostri rappresentanti possono, a nome di tutti, sollevare la voce e ancora battere i pugni sul tavolo. Una visione per molti forse nostalgica e inefficace ma l’alternativa a questo è solo chinare la testa e subire in silenzio le “moderne” ingiustizie del proprio destino lavorativo.
Buone feste di cuore a tutti.