Il primo suicidio si verificò già durante il corso allievi guardie del 1990. A Cittaducale un collega scomparve senza lasciare traccia e nonostante le ricerche soltanto dopo sette lunghi anni furono trovati, nei boschi di quella zona, i suoi poveri resti ed una corda che non lasciava dubbi sulle cause del decesso. Da allora e fino al dramma dei giorni scorsi, abbiamo assistito ad una serie di morti che ogni volta lasciano nelle persone più vicine un profondo senso di vuoto per la perdita di un collega ed una sensazione di rabbia per un azione a cui non riusciamo, in ogni caso, a dare ne un senso ne una spiegazione.
Colleghi stimati, spesso grandi lavoratori, senza problemi apparenti ed in sintonia con l’amministrazione sono caduti, vittime della loro “scelta”, per cause che restano incomprensibili a tutti noi e spesso anche ai loro familiari. Artefici, qualche volta, di vere e proprie pianificazioni per raggiungere il proprio obiettivo di morte evitando con attenzione di “destare sospetti” o addirittura capaci di mettere in atto vere e proprie strategie per eludere ogni controllo quando sottoposti alle “eccessive attenzioni” di amici, colleghi e familiari. Per chi resta, dopo il dramma, l’inquietante sensazione che il limite fra ragione e “follia”, nella nostra mente, è molto più sottile di quanto ci piace pensare.
Il SAF già da diversi anni ha cercato di affrontare il problema attraverso una ricerca, affidata ad un gruppo di psicologi, per capire se aspetti del nostro lavoro possano costituire elementi di stress eccessivo capaci di influire su una drammatica scelta che, con la ragione, non può essere in nessun modo collegata ai nostri problemi lavorativi quotidiani. Uno studio, basato su un campione di alcune centinaia di interviste sottoposte attraverso specifici questionari, che ha individuato gli aspetti negativi del nostro lavoro, ma anche escluso che questi possano essere correlati con i suicidi.
Il nostro “stress lavorativo” infatti non è maggiore rispetto alle “normali” categorie di lavoratori (non ci sono statistiche specifiche per i corpi di polizia) se si considerano gli orari di servizio disagiati, il tipo di utenza “particolare” con la quale ci confrontiamo o periodi di forte impegno come la campagna antincendio. Il malessere del personale CFVA cresce esponenzialmente invece ogni volta in cui per svolgere il proprio lavoro entrano in gioco elementi quali la fiducia nella propria Amministrazione, nelle sue regole e nella sua gerarchia. Elementi di stress che limitano certamente il nostro “benessere lavorativo” ma che inquadrati in un contesto di studio generale del fenomeno nel quale figurano anche precari, chi perde il lavoro o semplicemente milioni di lavoratori che vivono quotidianamente con lo spettro del licenziamento, non possono essere in alcun modo correlati con un fenomeno così drammatico.
Ci sono però alcuni elementi, legati al nostro lavoro, che in qualche modo “facilitano” questo triste fenomeno come ad esempio la piena disponibilità (anche nei momenti particolari che può riservarci la vita) di un arma che “facilita le cose” rispetto a chi deve elaborare un sistema e trovare un modo per raggiungere il suo estremo obiettivo. Elemento che evidentemente influisce negativamente anche fra gli operatori delle altre forze di polizia che, nonostante la mancanza di statistiche ufficiali, sono coinvolte pesantemente in un fenomeno che produce complessivamente in Italia circa 4.000 vittime all’anno.
Finora però troppo poco è stato fatto per fronteggiare un malessere diffuso che comunque esiste e per cercare di limitare questa vera e propria “patologia” della nostra società. Per il CFVA, a parte il finora inesistente ruolo istituzionale del Comandante e del suo ufficio del personale, dovremo iniziare a chiederci quali sono le cose che possiamo fare per migliorare l’ambiente di lavoro in cui ci troviamo. Magari partire dalle cose più semplici come riscoprire il gusto dello stare insieme anche fuori dai contesti esclusivamente lavorativi, usare la nostra generosità per occuparci con più attenzione del nostro collega e dei suoi problemi o dare fondo a tutta la nostra pazienza per superare attriti ed incomprensioni. Il nostro prestare attenzione a segni di malessere che qualche volta si intravedono anche attraverso mal celate “depressioni” o semplici abusi di alcol, può voler dire salvare una persona o addirittura in prospettiva aiutare noi stessi. Spendere un pochino delle nostre energie in questo senso sarà comunque, per tutti, un buon investimento.
– Istat: i suicidi in Italia – Allarme suicidi fra la polizia penitenziaria – Fenomeno dei suicidi: cosa sta succedendo all’Arma? – Un osservatorio per il fenomeno dei suicidi nella Polizia